Wednesday, March 25, 2015

Non c'è Open Data senza Open Mind


Non ho potuto fare a meno di tirar fuori dal cappello del Web, io Alice nel paese delle meraviglie degli innovatori, questo video che in maniera creativa sintetizza ed espone quello che è il  rivoluzionario salto di paradigma che il movimento Open Data si impegna a compiere. Dalle “segreterie”, custodi del “segreto”, si viaggia verso la trasparenza del dato con i principi ispiratori dell’open source. Sarà pronta la PA a prendere a tracolla lo zaino con il  quadratino di puzzle del sapere che possiede per condividerlo? Perché di circolazione virtuosa del sapere alla fin fine si tratta. Sono i knowledge workers i nuovi cavalieri erranti che trasformeranno lo stitico castello della burocrazia con il ponte levatoio del privilegio, in Open Space accessibile, visitabile e fruibile.

E’ un concetto in cui, sia come cittadino che come dipendente pubblico credo molto, al punto che ho quasi perseguitato il mio dirigente affinché mi facesse provare ad esporlo in un progetto che ho il piacere di condividere con voi.

https://drive.google.com/file/d/0B9caiEhrxIB5ZlFOTkd6ZDhsM2M/view?usp=sharing

Quel progetto non è mai partito, ma io ho la faccia di bronzo di credere ancora nei suoi contenuti.  Avrò la mia Regina di Spagna? Qualcuno mi darà una navicella per partire?

La domanda inquietante che io mi faccio e la faccio anche ai miei lettori è: c’è Open Data senza Open Mind? Mi riferisco alle resistenze  mentali al cambiamento dei politici ma anche degli amministratori e dei funzionari pubblici, che tendono al mantenimento dell’omeostasi del sistema e troppo spesso non accettano aspetti innovativi così forti, da rivoluzione copernicana  che vira dal segreto alla trasparenza. Il fatto è che non c'è trasparenza senza "ammissione dell'evidenza". Un dato può essere trasparente ma non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. E’ opportuno che vi sia una parallela evoluzione della nostra classe dirigente pubblica che superi quella miopia voluta e conservata attraverso ataviche concezioni del settore pubblico ancora legate ad esclusività, privilegi, opportunismi che hanno già tanto danneggiato il nostro paese. L’imperdibile Luca Attias ci  conferma quando pesi sul nostro paese l’incancrenirsi di metodi sbagliati e comunque reiterati per la scelta della classe dirigente. Open Mind!!!

 

 

Monday, March 09, 2015

L' abbraccio di Ippocrate




“La potenza della parola nei riguardi delle cose dell'anima sta nello stesso rapporto della potenza dei farmaci nei riguardi delle cose del corpo.”  Gorgia

Aprite il link che vi propongo:


“Le parole sono farmaci – dice Gorgia –. Alcune infondono coraggio e forza, altre avvelenano l’anima e la stregano”. L’antico filosofo Gorgia e il moderno analista Freud hanno entrambi pensato che le parole sono farmaci. Freud inventò la talking cure (il trattamento dell’anima con le parole). Le parole sono farmaci perché anche loro hanno il potere di curare. "Le suggestioni verbali positive agiscono sulle stesse vie biochimiche bersagliate dai farmaci", ha spiegato Fabrizio Benedetti, neurofisiologo del Dipartimento di neuroscienze dell'università degli Studi di Torino, fra i massimi esperti internazionali in materia di placebo. "Un esempio? Abbiamo dimostrato che determinate parole inibiscono l'enzima ciclossigenasi, lo stesso che viene bloccato quando prendiamo un'aspirina per farci passare un dolore". È stato dimostrato - ha riassunto Benedetti - che le aspettative positive agiscono sugli stessi enzimi che vengono attivati dai medicinali, favorendo quindi il processo di cura e nel progetto con Fondazione Quarta saranno approfondite le modalità con cui ciò avviene. Il prossimo step, infatti, sarà proprio quello di misurare la reazione dei singoli neuroni a parole positive 'somministrate' a malati di Parkinson sottoposti ad impianto di pacemaker cerebrale. L'obiettivo è quello di valutare come il cervello si attiva in risposta ad un'iniezione di ottimismo. “Ci sono parole, in effetti, che spaventano il paziente e parole che gli accarezzano il cuore. Parole che lo aiutano a sentirsi felice e parole che lo spingono nella più buia ansia. Il malato varca la soglia dell’ambulatorio del suo medico e si appiglia alle parole per fotografare il personale malessere. Proprio dalla voce diretta del suo assistito, dunque, il dottore raccoglie tutte quelle informazioni, notizie e sensazioni in grado di aiutarlo ad approdare a una diagnosi e a una cura.

È l’anamnesi. Che poi significa «ricordare».
Insomma, il primo basilare, capitale, determinante, indispensabile atto della Medicina è… ascoltare un racconto.”(Edoardo Rosati)

Malasanità? Malpractice?

Cadono troppo spesso le braccia ad Ippocrate di fronte alla mancata cura per cattiva gestione amministrativa e alla sbagliata cura per incompetenza professionale.
Ci abbeveriamo al pozzo della tecnologia affinchè diventi la panacea di tutti i mali. Il fatto è che in  questa nostra Italietta  alla deriva, la smart city è sempre più smort  e le best practices sono sempre più mosche bianche. E a volte è un singolo, solitario, persino dimenticato buon camice bianco che in questo ginepraio di insoddisfazioni fa la differenza. Ma in un’epoca della Sanità caratterizzata dal ricorso sempre più sistematico e routinario alle tecnologie diagnostiche, la parola (e, di conseguenza, il ragionamento medico) appare in crisi. Di più: bistrattata, accantonata, umiliata. Urge assolutamente recuperarla. Alla luce di un dato schiacciante: secondo il British Medical Journal, basterebbero due minuti appena di colloquio per consentire all’80 per cento dei malati d’illustrare con precisione i disturbi che accusano.
Rifletto con Edoardo Rosati che “il vero “mal” all’origine di tante rogne e del lamento crescente dei pazienti sia un altro. Chiamatelo “mal-ascolto”, “mal-disposizione”. 
Ovvero: la realtà documentata è che molti medici non ascoltano e sottovalutano il dialogo. E invece rassicurare i pazienti e i loro cari col sapiente uso delle parole non è un atteggiamento paternalistico: è parte dell’essere medico. 
I camici bianchi devono “abbracciare” il malato, toccarlo e parlargli, trasmettergli un autentico sentimento di solidarietà umana.
Quando il filosofo Heidegger attraversò un periodo di profonda depressione a causa della sospensione dall’insegnamento, faceva solo delle passeggiate accompagnato da un medico che non gli diceva nemmeno una parola.
Anche questi sono ingredienti della cura, bisognerebbe davvero che i medici tornassero a conversare con il cuore e il cervello.
Ecco che cosa manca alla medicina hi-tech di oggi: il calore della parola, il calore della presenza.

 Il gesto stesso racchiuso nel termine «clinica», che deriva dal greco klìne: «letto».

Anche Comunitando, come “la palestra della scrittura”, lavora sulla «comunicazione», “che vanta quella solare radice: com- = cum. Ossia, «con». Segno di vicinanza, di compartecipazione, d’interazione, di conoscenza condivisa, di uso in comune di una risorsa. E questa risorsa è la parola (e la sua corretta gestione). L’unico robusto filo, oggi, in grado di ricucire lo strappo nel rapporto tra malati e camici bianchi.”

Per i miei lettori che volessero approfondire questo tema e che vogliono credere in una  Sanità sanata dall’ abbraccio di Ippocrate, propongo questo interessante link:



Questo post lo sto pubblicando dopo un lungo periodo di inattività, scoraggiata fra l’altro anche da problematiche fisiche che mi hanno tolto la voglia di esprimermi. Lo possiamo considerare un grazie agli incoraggiamenti, al sostegno del mio medico di base, il Dott. Amabile Guzzo Asl RM B, che sull’onda di Patch Adams, cura la persona e non la malattia.