Thursday, April 12, 2012

MA DOVE MI PORTERANNO QUEGLI STIVALI?


Questo è un post maledettamente emotivo...non da risorsa umana ma da persona. Buttati nell'universo cerchiamo di andare avanti pensando col cervello della testa e non con quello della pancia, ma a volte il cuore strappa le cerniere ...ed è la volta buona che la redazione di Google mi sbatte in quinta pagina! Strabordo per cercare il passo e parto  da quello che sento.

 Il dolore lo conosco. Ci siamo incontrati molte volte, ci siamo abbracciati, ci siamo spiegati, abbiamo colonizzato l’aria e proprio per non soffocare abbiamo preso qualche distrazione, ma poca, poca poca. Giusto uno spiffero. Per poi tornare a casa. La casa dove non ti perdi.  Meglio un’estenuante ossessione, un rancido sbadiglio, che l’incertezza di una brezza che non dura. E così, la mia vita è qui a chiedere di aprire la porta, a chiedere un’altra change, un’opportunità, un saluto, un commiato sereno con l’amico di sempre: il dolore trattenuto. Come salutarlo, come dirgli che è ora di andare? Troppo tempo abbiamo trascorso insieme. Tradirlo per andare incontro ad uno sconosciuto: la vita che è. E’ comunque una separazione, come quelle dai mariti che ti massacrano ma che ti sono familiari. Il dolore ha sempre coccolato il mio non essere. Tu non sei. E il dolore ti faceva compagnia. Tu non puoi. Tu cominci ma poi non porti a termine. Se porti a termine è perché sei cattiva. Non sei femminile e il dolore era lì. Compagno di fallimenti, complice nella non riuscita, consapevole che si poteva fare altrimenti, ma che si doveva  procedere per errori. Lasciamo la strada del dovere e lasciamo sul ciglio delle certezze un amico: il dolore. cercato...Sembra facile!!!

Mio nonno Giovanni e i suoi briganti. Le favole e gli eroi ed io ero lì, con il mio mocciolo e la paura, ma quella dei fucili, non quella dei sentimenti. A tre anni i sentimenti non mi facevano paura, mio nonno mi dava pane e amore e…l’uovo: quell’uovo. Era l’unico che le galline avevano lasciato nel coccio di ferro smaltato  e mio nonno sapeva che era per me: la bambina che doveva crescere ed io crescevo con l’entusiasmo di chi sapeva che era stata scelta. Dovevo andare avanti e avere il meglio. Mi dondolavo nella culla di legno mentre il braciere intiepidiva l’aria e sciacquavo nella bocca il gusto equilibrato di chi sa. A tre anni e con mio nonno io sapevo di esistere. Ricomincio da lì per riappropriarmi della mia vita?

Ricomincerò da e con quegli stivali. Non mi sono mai veramente piaciute le scarpette di cristallo. Gli anfibi sanno di guerra ed io ho ormai deposto le armi. La polvere delle battaglie non mi esalta più. Voglio una pace rigogliosa, ma di quelle paci che comunque non hanno nulla a che vedere con  le scarpette di marzapane e inutilità e io non ho le scarpe dalle quali e con le  quali partire. Le scarpe nelle vetrine, quelle  alla moda sono troppo anonime per una che decide di esistere e che deve pur calzare la sua scarpa, che porta il suo passo, che porta le sue promesse delle mete da raggiungere. Quando si entra nella vita bisogna sapere con che scarpe si entrerà. Stivali estivi, bianchi, né d’attacco, nè stucchevoli, neanche anonimi e senza impronta. Sono quelle le scarpe che voglio. Sono nella vetrina, la mia vetrina. Voglio credere che un giorno li indosserò ed entrerò nella vita per danzare, non per arrancare sospetta e restare nella retroguardia.